27 Luglio 2024
Cinema e TeatroRubriche

Atessa, anteprima nazionale di “Fontamara”

Un venerdì 8 febbraio che promette grandi emozioni con ACS Abruzzo e Molise Circuito Spettacolo: alle ore 21 al Teatro Comunale di Atessa l’Anteprima Nazionale di “Fontamara” spettacolo che sostituisce “Eccesso di zelo” in programma nella stagione teatrale, lo spettacolo, tratto dal romanzo di Ignazio Silone, per l’adattamento e la drammaturgia di Francesco Niccolini e la regia di Antonio Silvagni, è una produzione del TSA e del Teatro Lanciavicchio con la collaborazione del Centro Studi Ignazio Silone, del Comune di Pescina e del Comune di Avezzano. La compagnia Teatro Lanciavicchio è stata durante la produzione dello spettacolo in residenza artistica con Zone Libre di ACS al Teatro Comunale di Teramo nel 2018. In scena Angie Cabrera, Stefania Evandro, Alberto Santucci, Rita Scognamiglio, Giacomo Vallozza, musiche originali Giuseppe Morgante. Voci. E Fantasmi. Talvolta fantasmi di fantasmi. Cinque attori: danno voce a un mondo, a un paese, ai suoi abitanti e pure ai loro carnefici. Raccontano – quasi fosse un’opera sinfonica a più voci – la storia di Fontamara, dei Fontamaresi, di Berardo Viola e di Elvira. Le voci dei protagonisti si accavallano con quelle dei personaggi minori: ogni attore deve acrobaticamente passare da un’identità all’altra. Giuvà, Matalè, il loro figlio, Marietta, Scarpone, e poi il generale Baldissera, Papasisto, Venerdì Santo, Ponzio Pilato, Betta Limona, l’impresario, il cavalier Pelino, don Baldissera, le mogli, i carabinieri, un prete venduto, un canonico disperato… un mondo si affolla sul palcoscenico attraverso una partitura ferrea, un’alternanza di presenze e testimonianze. Perché di testimoni si sta parlando: quasi fossimo di fronte a un giudice, o forse al Giudizio Universale, sono tutti chiamati a ricostruire quei giorni osceni pieni di vergogna violenza e disumano accanimento sui più indifesi. Mano a mano che l’intreccio di sviluppa, prendono corpo le storie dei Fontamaresi e degli abusi dei poteri forti ai loro danni. Più l’ombra incombente del fascismo che si sposa con gli interessi dei latifondisti. E insieme, la storia dei due protagonisti assenti, Berardo ed Elvira: in mezzo a questo concertato di voci, solo le loro mancano. Berardo ed Elvira esistono solo nel ricordo degli altri. Eppure, qui, sono tutti fantasmi. A parte un unico sopravvissuto: il figlio di Giuvà e Matalè. Solo lui si è salvato. Da lui parte il racconto: se fossimo davvero di fronte a un tribunale, lui sarebbe il supertestimone, quello da proteggere, quello da cui dipende la riuscita o meno del processo. Lui evoca tutti i fantasmi, e i fantasmi si presentano e – a loro volta – i fantasmi ne generano altri e altri e altri ancora. Fino alla fine. Fino alla strage. Fino al genocidio. Perché di genocidio si tratta. «Torno a Fontamara 35 anni dopo il mio primo viaggio. Allora avevo 15 anni: la forza disperata dei tre testimoni protagonisti del capolavoro di Silone non mi ha mai abbandonato. Quello stile piano, colmo di dignità e al tempo stesso di umiliazione, l’ironia della scrittura e la ferocia dei potenti. I privilegi dei ricchi, la loro ingordigia, la presa in giro spietata di un mondo destinato al genocidio. Perché un genocidio è stato. Solo che allora non avevo gli strumenti per capirlo. Quando vent’anni fa ho avuto la fortuna di lavorare con Marco Paolini e Gabriele Vacis al Racconto del Vajont, uno dei capitoli più duri da studiare e al tempo stesso esempio di coraggio e forza morale, è stata la lettura dell’arringa dell’accusa, scritta dall’avvocato Sandro Canestrini, ora novantaquattrenne: ne fece un piccolo libro, un autentico pamphlet, che intitolò Vajont: genocidio di poveri. Ecco, tornando a Fontamara a distanza di tanti anni, e con molti chilometri e incontri belli e tragici sulle spalle, penso che questo romanzo capolavoro sia un altro capitolo fondamentale per chi ha deciso di raccontare quel genocidio. Ora, insieme agli attori cafoni – come si definiscono loro stessi – del Teatro di Lanciavicchio e a Tonino Silvagni, provo a portare quelle voci e quei fantasmi sul palcoscenico.» Francesco Niccolini “Fontamara è un romanzo spietato. Pietà Sentimento di affettuoso dolore, di commossa e intensa partecipazione e di solidarietà che si prova nei confronti di chi soffre. Spietato Che non prova pietà, privo di sentimenti di pietà, o che si comporta senza mostrare pietà, in assenza di pietà. Questa assenza mi ha suscitato da sempre un certo  fastidio in questo straordinario romanzo, che ho amato, che dovevo amare, raccontava della mia terra, ma …qualcosa mi allontanava da Silone. Sentivo che la commozione che io provavo per i cafoni, non intaccava minimamente Silone e questo lo trovavo inspiegabile, ma anche insopportabile. Silone non lascia trasparire mai la pietà per la situazione miserrima dei cafoni, che pure vivono  in condizioni disumane, vengono imbrogliati, sbeffeggiati, sfruttati, violentati uccisi, ma l’autore tira avanti dritto nella sua strada narrativa, senza indugiare un momento in considerazioni  sul loro dolore, in descrizioni della loro afflizione. Malgrado quello che accade ai fontamaresi, Silone non è mai indulgente con loro, con i loro difetti, le loro meschinità dettate dall’ignoranza e dalla miseria. Poi -colpevolmente in ritardo- ho capito  che una delle  forze del romanzo è proprio questa assenza di indulgenza da parte dell’autore, questa scelta di sdradicare ogni forma di pietà dalla narrazione di una storia cosi terribile, quella spietatezza nella cronaca di fatti duri, cruenti, immorali che ci accompagna all’ineluttabile destino di morte è il solo modo di raccontare una società che per affermarsi ha bisogno di calpestare i più deboli, di sfruttare gli ultimi, di sbeffeggiare l’ingenuità. L’ assenza di commozione è la strada  che intraprende  Silone per commuovere, per commuoverci… ‘farci muovere verso’…E muovere qualcuno e far muovere qualcosa attraverso l’arte in un momento storico di coscienze assopite come quello che ha vissuto Silone, era un grande obiettivo. A lui è riuscito, e riesce ancora a quasi un secolo di distanza. Abbiamo cercato con il nostro spettacolo di essere il più possibile vicini a Silone, abbiamo cercato uno spettacolo asciutto, rigido, duro. Uno spettacolo senza pietà.Senza pietà per  i cafoni e la loro storia. Senza pietà per gli attori inchiodati sul posto a dar vita a cento vite. Senza pietà per quegli spettatori troppo abituati a ammiccamenti e moine. Senza pietà per i figli dei cafoni di fontamara e le loro storie d’oggi”.

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